Riprendiamo, facendola nostra, una riflessione di Mjriam Abu Samra su questi giorni cruciali per il popolo e la resistenza palestinesi, e su come superare la mera solidarietà alle vittime dell’aggressione colonialista di Israele e degli stati occidentali che la sostengono. Noi l’accogliamo come un incitamento a intensificare e organizzare meglio, con più continuità, la nostra azione (sempre insufficiente) a sostegno della indomita resistenza palestinese. Grazie alla compagna Pina per avercela segnalata. (Red.)

Non vuole essere l’ennesima polemica, ma una constatazione e riflessione. In questi giorni, in particolare dopo l’uccisione di altri 6 giornalisti a Gaza tra cui Anas al-Sharif, ho notato un generale disorientamento che si riflette, pericolosamente nella narrativa su questo momento storico. Non nego la difficoltà di mantenere lucidità e forza, ancora, dopo 2 anni. Sono consapevole della durezza lancinante di colpi come questo e tanti altri, anche per me. Ma non si può rischiare di dare priorità a questi sentimenti, sensazioni strazianti, e dolore, perdendo di vista la dignità rivoluzionaria e la forza determinata e resistente di una lotta lunga e mai annichilita come quella palestinese. Cadiamo anche qui nell’autoreferenzialità e involontariamente contribuiamo a quella narrativa che vuole i palestinesi o carnefici o vittime impotenti.
Ed è sempre una dinamica che riflette chi siamo noi e come noi guardiamo al mondo, alla vita, alla lotta e non rende giustizia a quello che Ghassan Kanafani chiamava “romanticismo rivoluzionario”, la convinzione della vittoria, della ineluttabilità della liberazione, del movimento di resistenza. In “Ritorno a Gaza -scritti di donne italo palestinesi sul genocidio” Samirah Jarrar scrive, riportando una telefonata nell’ottobre 2023 mentre era in Palestina, con familiari in Italia: “Come faccio a spiegare a chi mi chiama dall’estero che, nonostante la paura, la rabbia e il dolore, qui c’è ancora qualcosa di indescrivibilmente bello e forte che ci unisce – e che non so chiamare altro se non speranza?”
La disperazione è tutta nostra, non dei palestinesi. Ed è disperazione nostra che nasce e si radica sulla nostra impotenza e l’immobilismo in cui ci crogioliamo ancora nonostante i grandi proclami, nonostante le denunce a chi si è svegliato tardi, a chi ancora non si sveglia, a chi sta in silenzio e gli incitamenti a “esprimersi” ad “essere voce” e così via. Ma la verità è, appunto, che oltre queste analisi e questo costante parlare scrivere denunciare, non ci si è riusciti a mobilitare, davvero, in una azione sistematica coerente collettiva organizzata e proiettata nel lungo termine, neanche ora. E la stanchezza della violenza a cui assistiamo, e la necessità di fare i conti anche con la nostra incapacità di agire, offuscano lo sguardo e cadiamo anche “noi”, quelli che la solidarietà la sanno fare “bene”, nella disperazione che non diventa rabbia e reazione, speranza e resistenza, come la Palestina insegna, ma si ripiega nella passività del dolore, nella condanna delle narrative mainstream, e nella sofferenza del dramma umano che smuove e genera pietà ma non riflette la realtà.
A Viterbo, con Wasim Dahmash si è parlato anche di questo, della nostra posizione, insistendo sulla necessità di una autocritica seria, anzi spietata, che possa finalmente guardare in faccia alla realtà di casa nostra, dei limiti percettivi e analitici che ancora abbiamo, del riprodursi di narrative e pratiche che restano ancora insoddisfacenti. È solo partendo da qui che la Palestina sarà compresa per quello che è, una lotta che è di tutti e per tutti, che non va guardata con “solidarietà ed empatia umana” né con la “idealizzazione esotica” quasi mitologica e veneratoria che cade nella stessa visione orientalista che di fatto si vorrebbe rifiutare. Ma con la consapevolezza politica lucida e strutturale, capace di mobilitare, di vederci parte in causa e soggetti agenti nel cercare e costruire il cambiamento politico radicale dentro di noi e intorno a noi, sui nostri territori, nelle nostre istituzioni e meccanismi politici sociali ed economici che rendono anche noi schiavi e (spesso – a differenza della Palestina -) vittime passive di un sistema capitalista e imperialista che parte sotto casa nostra e ci ha assorbito per potersi estendere ovunque. (E grazie a Wasim per insegnare ancora così tanto a me e a tutti).
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